Chi sono

Mi presento. Sono Michela, ho 26 anni e sin da bambina sapevo che “aiutare il prossimo” sarebbe stato il mio “posto nel mondo”.

Ora, da grande, l’espressione aiutare non mi piace più. Ma credo sia facilmente scomponibile in quattro parole: guardare, ascoltare, sostenere, partecipare.

La mia propensione a volgere sempre lo sguardo verso gli ultimi mi ha condotto, tra le altre cose, verso un particolare tipo di ultimi: quelli che scontano una pena. Senza proselitismi sterili o tensioni anti-sistema ma piuttosto con tanto studio, esperienze significative e la giusta dose di accoramento.

Rispondere a domande del tipo «perché ti stanno tanto a cuore i delinquenti?» è da sempre difficile e rischioso. Allora mi affido alle parole che ha usato Desmond Tutu, co-protagonista della soluzione pacifica all’apartheid sudafricano, per spiegare quel meraviglioso concetto che si chiama Ubuntu:

«One of the sayings in our country is Ubuntu – the essence of being human. Ubuntu speaks particularly about the fact that you can’t exist as a human being in isolation. It speaks about our interconnectedness. You can’t be human all by yourself, and when you have this quality – Ubuntu – you are known for your generosity. We think of ourselves far too frequently as just individuals, separated from one another, whereas you are connected and what you do affects the whole World. When you do well, it spreads out; it is for the whole of humanity».

Tradotto: «Uno dei motti del nostro paese è Ubuntu – l’essenza dell’essere umano. Ubuntu parla in particolare del fatto che non si può esistere come essere umano in isolamento. Parla della nostra interconnessione. Non puoi essere umano da solo, e quando hai questa qualità – Ubuntu – sei conosciuto per la tua generosità. Pensiamo a noi stessi troppo spesso come semplici individui, separati l’uno dall’altro, mentre tu sei connesso agli altri e ciò che fai influisce sul mondo intero. Quando fai bene, si diffonde; è per tutta l’umanità». 

Queste mie pulsioni, poi, hanno trovato spazio nello studio della Restorative Justice, che valorizza l’uso di modelli dialogici e partecipativi all’interno di una giustizia penale che rimane, ahimè, repressiva; fornendo risposte significative che valorizzano i bisogni delle persone (di chi ha leso e di chi è stato leso), che promuovono la responsabilizzazione e l’assunzione di impegni per il futuro.

Da ultimo, ma decisamente non per importanza, la mia dedizione ha trovato posto nell’intensa attività di tirocinio e volontariato in ambito carcere. Ho la fortuna di far parte di un gruppo bellissimo: quello del Progetto Carcere di Rimini, diretto da Caritas Rimini Odv. Lì siamo tutti diversi, facciamo lavori diversi e affluiamo in modi diversi… ma siamo legati dalla stessa passione e dallo stesso modo di guardarci intorno: lucido, sensibile, umano.

Ed è proprio qui che risiede la spinta decisiva a innescare riflessioni attorno a me: il sentir urlare dentro voci e speranze, sensazioni ed emozioni a cui si fa fatica a dare un nome ma che sono difficili da ignorare, che chiedono a gran voce di essere accolte e ascoltate, che abbracciano ed incoraggiano il più genuino senso di umanità e di Ubuntu che risiede in noi.